Della Dott.ssa Cristina Franceschini, Coordinatrice della nostra offerta formativa
La parola stereotipo, rimanda anche all’aggettivo stereotipato.
Con questo termine ci si riferisce, in senso letterale, a qualcosa che è stato realizzato grazie al procedimento della stereotipia: ad esempio, la ristampa di un volume; le stereotipie, sarebbero infatti le controimpronte che si usano per la composizione tipografica, e sono uguali ad un modello, ad un originale. Dunque, non si possono modificare.
Come tutti sappiamo, l’uso figurato dell’aggettivo fa riferimento a qualcosa di impersonale, inespressivo, perché detto o fatto senza partecipazione: ad esempio, ci si riferisce ai soliti discorsi stereotipati da salotto; oppure, a volte definiamo un sorriso come stereotipato. In psicologia, il termine “stereotipo” o “stereotipato” si riferiscono a opinioni rigidamente precostituite e generalizzate. Sono opinioni che non vengono acquisite sulla base di un’esperienza diretta, e che non tengono conto della valutazione dei singoli casi, espresse su persone o gruppi sociali.
Uno stereotipo è dunque caratterizzato da una forte rigidità e di solito è piuttosto difficile anche da eradicare. Ogni cultura ha i propri stereotipi, dei quali non sempre le persone sono coscienti: sono così radicati che non sappiamo nemmeno perché e come si sono creati e non sempre siamo consapevoli di esserne condizionati. Diventano script inconsci, lenti colorate (come quelle di Kant, per rendere l’idea) attraverso le quali guardiamo le altre persone ed il mondo. E spesso, giudichiamo anche noi stessi negativamente, quando ci sembra di non essere aderenti ad un modello che abbiamo introiettato. Abbiamo paura, e invece stiamo crescendo, stiamo solamente cambiando.
Una determinata concezione di sviluppo della persona umana, di scuola, di istruzione e di apprendimento, può permeare il nostro rapporto con il lavoro di educatori e di insegnanti. Può indurre la creazione di stereotipi. Fino a che punto? Dalla mia esperienza, molto profondamente.
Ho notato, infatti, che le persone possono vivere la formazione come un momento di apprendimento molto interessante ma che non genera un cambiamento nella consapevolezza delle proprie convinzioni. Conoscere a livello teorico i Bisogni Educativi Speciali degli altri, non è sufficiente ad accettare che le persone possano presentare nella realtà modi di essere e di apprendere diversi dai nostri. Modi che ci sfidano, che non sempre comprendiamo, che possono metterci di fronte ai nostri limiti… Tendiamo, così, a capire (forse), ma non ad accettare davvero le differenze. Accettare non significa spendere belle parole, ma significa cambiare comportamento, agire di conseguenza alla presa di coscienza di una realtà.
Tendiamo a ricercare una normalizzazione dell’altro, sembra che sia proprio la tentazione cui spesso cediamo. Sia da genitori, che da insegnanti ed educatori. La normalizzazione implica la ricerca di appigli che possano essere utilizzati per ricondurre le persone al nostro stereotipo di riferimento: l’alunno, il figlio, la persona normale.
Ogni azione educativa quotidiana rischia così di appiattire l’unicità dell’altro. Soprattutto del bambino e dell’adolescente, ancora così plasmabili e dipendenti dal giudizio degli adulti con cui si relazionano.
Come si fa allora? Come si può, ad esempio, insegnare, senza ricadere nella ricerca di una normalizzazione?
Partendo da una formazione che non riguardi solamente la conoscenza degli altri, ma che parta dallo spiegarci chi siamo noi stessi. Aiutandoci a scoprire quali siano le linee di sviluppo che ci rendono umani capaci di relazionarci con altri umani. Sostituendo il termine normale con il termine umano, inteso come ciò che è comune agli esseri umani.
Cosa abbiamo in comune con i nostri simili, che siano o no cresciuti in un contesto simile al nostro e che abbiano o meno avuto uno sviluppo neurotipico?
Invece di focalizzarci sui bisogni speciali di alcuni, pensiamo a quelli di tutti noi.
La psicologia e la pedagogia hanno dedicato e dedicheranno (penso) molto lavoro di ricerca a questo argomento. Gli studi del XIX, XX e XXI secolo hanno individuato alcune macro aree di bisogni immateriali fondamentali dell’essere umano:
il bisogno di sentirci amati da una famiglia e di essere accuditi durante la nostra infanzia
il bisogno di far parte di una rete di relazioni e di comunicare
il bisogno di imparare secondo le nostre caratteristiche
il bisogno di riconoscere le nostre emozioni
il bisogno di scoprire i nostri punti di forza e di debolezza
il bisogno di ricevere sfide commisurate alle nostre capacità del momento
il bisogno di sviluppare le nostre capacità potenziali e le nostre intelligenze
La formazione, deve mirare a costruire negli insegnanti e in tutti gli educatori la consapevolezza di ciò che accomuna tutti noi, ciò che abbiamo in comune anche tra persone di generazioni diverse.
Una volta messa a fuoco questa consapevolezza, la formazione può e deve anche dare gli strumenti per riflettere su come realizzare questi bisogni in concreto, adeguandosi alla realtà della singola persona.
La normalità può risultare una gabbia opprimente, se significa dover diventare come altri hanno in mente, e non semplicemente come siamo.
La formazione alla didattica inclusiva deve dunque essere trasformativa, come oggi ci insegna la letteratura: deve aiutarci a lavorare su noi stessi, sui nostri stereotipi, perché altrimenti non riusciremo a metterci nei panni dell’altro per progettare la didattica e le azioni educative, ma cercheremo di farlo assomigliare a noi stessi.